Riportiamo di seguito il testo di un’intervista al Presidente CIDA pubblicata dall’Huffpost il 20-12-2018 a firma di Giuseppe Colombo
“Ci sentiamo traditi da questa manovra”. Giorgio Ambrogioni è il presidente di Cida, la Confederazione italiana dei dirigenti e delle alte professionalità. Dentro ci sono 25mila dirigenti pubblici e privati: avvocati, magistrati, medici, diplomatici, prime linee del mondo dell’industria che conta, da Tim e Leonardo. Si definiscono “furiosi” perché tirati dentro alla lista della resa che il governo gialloverde ha dovuto mettere sul piatto di Bruxelles per portare a casa la manovra ed evitare la procedura d’infrazione. Il taglio delle pensioni d’oro e l’ecotassa hanno scoperchiato il vaso della pazienza. Non ci stanno a passare come la casta e quindi a tollerare altri sacrifici. “Siamo di fronte a un vero e proprio esproprio di dimensioni inaccettabili”, tuona il loro rappresentante in un colloquio con Huffpost.
I manager sono sul piede di guerra. Pronti a ricorrere alla Corte Costituzionale per bloccare il disegno del governo sull’accetta che pende sugli assegni d’oro a partire da 100mila euro lordi l’anno. Scendendo dentro alla misura, Ambrogioni spiega che si sentono “traditi” da Lega e 5 Stelle, e perciò “furiosi”, perché la percentuale di prelievo è stata aumentata all’ultimo momento. “Si era partiti da un aggancio solidaristico da realizzare tramite una verifica dei contributi versati e si è arrivati a tagliare a prescindere da questi stessi contributi”.
La rabbia ha toccato i livelli di guardia. “Siamo molto ma molto amareggiati perché molte delle pensioni dei manager, se ricalcolate in base al contributivo, aumenterebbero invece di diminuire”. Non solo. Quello che infastidisce è anche la reiterazione dei sacrifici richiesti perché, incalza ancora il numero uno di Cida, “sarebbe il terzo negli ultimi cinque anni”. Si fanno subito i conti. Due contributi di solidarietà pagati negli ultimi cinque anni, l’ultimo dei quali scaduto a fine 2017. Otto blocchi, parziali o totali, dell’adeguamento degli assegni al costo della vita. Il risultato è la diminuzione del loro valore: il 20% in meno. È qui che si innesta la considerazione del non volere essere considerati dei privilegiati che devono pagare il conto della legge di bilancio. Lo spiega ancora Ambrogioni: “Siamo stati additati come insensibili ed egoisti, ma la gente che io rappresento viene dal ceto medio. Sono persone che si sono affermate assumendosi rischi e responsabilità, hanno conseguito risultati e ora viene tutto negato. Così si nega il merito”.
L’ira di una grande fetta del management italiano si scaglia anche sull’ecotassa. Perché dopo le diatribe tra Lega e 5 Stelle, il punto di caduta finale della norma ha tutelato le utilitarie, gravando invece in modo oneroso sui Suv e in generale le auto di grossa cilindrata. Qui l’angolatura è quella della protesta contro una misura che “deprime i consumi e mette un settore in serie difficoltà”. Cosa vogliono, invece, i manager? “Abbiamo bisogno di smuovere il mercato interno, di riattivare gli investimenti, non di deprimerli”, chiosa Ambrogioni.
La lista di chi paga il conto della manovra non comprende solo i manager. Se si guarda dentro al capitolo pensioni emerge infatti un ulteriore identikit del cittadino che rimane scottato dalle norme che si apprestano a essere votate in via definitiva dal Parlamento. È il caso, ad esempio, dell’impiegato pubblico in pensione con 30mila euro lordi l’anno. Pagherà anche lui, e caro, a causa del blocco dell’adeguamento del valore dell’assegno pensionistico al costo della vita. C’è una soglia, pari a 1.522 euro lordi al mese (circa 1.100 euro netti) oltre la quale scatterà il blocco della rivalutazione. Al governo serve per incassare circa 253 milioni, che vanno aggiunti alle altre risorse che si otterranno attraverso tagli e nuove tasse per arrivare a 10 miliardi, il prezzo imposto da Bruxelles per l’ok alla manovra. Per l’impiegato pubblico, invece, è un sacrificio. A spiegarlo è Stefano De Iacobis, coordinatore del Dipartimento previdenza della Fnp-Cisl: “Chi pagherà di più sarà chi recepisce una pensione tre volte superiore al minimo (1.522 euro lordi ndr), cioè l’impiegato, il pensionato del pubblico, del ceto medio, chi percepisce 30mila euro lordi l’anno”. È guardando ai numeri che si capisce il perché. Le nuove norme, infatti, allargano il valore dell’adeguamento rispetto alle regole attuali, ma il primo gennaio 2019 era prevista l’entrata in vigore di una legge – la 388 – voluta da Romano Prodi, ma poi bloccata da Silvio Berlusconi e a seguire da tutti gli altri governi. La 388 sarebbe stata più vantaggiosa in termini di adeguamento dell’assegno. Con il quadro scelto dall’attuale governo, invece, questa fascia di pensionati perderà il 5 per cento.
Allargando la prospettiva sul tema previdenziale, una delle due misure cardine della manovra, cioè la quota 100 (62 anni di contributi sommati a 38 anni di età per uscire prima dal lavoro), rischia di creare problemi al pensionato del ceto medio-basso. I più penalizzati sono quelli che provengono dal settore pubblico, cioè gli statali. De Iacobis, infatti, spiega come il pensionato che aderirà alla quota 100 andrà a perdere il 20% e non per il sistema di calcolo, ma solamente perché si va in pensione a 62 anni e quindi la perdita si registra a causa degli anni che vengono a mancare tra appunto i 62 e l’età pensionabile prevista attualmente dalla riforma Fornero (in media 67 anni).
Chi paga, ancora, sono gli imprenditori. Più per assenza di norme in loro sostegno che per misure punitive. Più quelli medi rispetto ai piccoli. Fatta eccezione per l’intervento sull’Ires (l’imposta sul reddito delle società) che passa dal 24% al 15%, e per il rifinanziamento dell’iper e super ammortamento messi in campo dagli ultimi governi del Pd, il resto sono briciole. I piccoli imprenditori e le persone fisiche con partite Iva dal bacino contenuto incassano una mini flat tax: tassazione agevolata solo fino a 65mila euro. I contraccolpi, invece, si sentiranno eccome perché la tassa piatta annulla il maggiore beneficio che si otteneva fino ad oggi dal combinato disposto Iri-Ace, cioè l’imposta sul reddito patrimoniale e l’agevolazione introdotta nel 2011 per favorire il rafforzamento della struttura, sempre patrimoniale, delle imprese. In altre parole: il carico fiscale non diminuisce, anzi in alcuni casi aumenta. La perdita per gli imprenditori, in termini di sgravi, è di 2 miliardi. Dall’accordo con Bruxelles è emersa l’ultima mazzata: stop al credito d’imposta goduto da quei soggetti che approntano investimenti in beni strumentali nuovi. E ancora abrogazione del credito d’imposta per l’Irap, l’imposta sulle attività produttive, che fino ad oggi era concessa a quelle imprese che impiegano lavoratori a tempo indeterminato.
C’è però anche chi incassa dalla legge di bilancio. O comunque ne beneficia. È chi ha una pensione minima, pari a 513 euro netti al mese: con la pensione di cittadinanza, voluta dai 5 Stelle, arriverà a 780 euro. Godrà degli effetti della manovra anche chi oggi non ha un lavoro con il reddito di cittadinanza, misura che al di là della sua natura assistenzialista, va a impattare – nelle previsioni dei pentastellati – su una platea di 5 milioni di cittadini, giovani e non. E poi la quota 100, che farà contento chi vorrà andare uscire prima: sono quei pensionati che mettono in conto un valore dell’assegno più basso, quelli che hanno una pensione così alta che possono permettersi il lusso di sopportare la decurtazione e anche il divieto di cumulo con altri redditi da lavoro. Bontà loro, si potrebbe dire. A chi il bastone, a chi la carota. La manovra scontenta e accontenta a macchia di leopardo.